E’ in atto una disputa strategica tra due generazioni per opposti
interessi e ragionamenti. I “vecchi” mirano al moderno al futuro ed i
“giovani” vanno dritti al passato, al consolidato, al ragionato, al
sicuro. Avrete già capito dall’enfasi che parteggio per i giovani anche
se anagraficamente lo sono stato fino a poco fa. Parteggio per loro
perché credo di aver conservato ancora un po’ del mio intelletto e, nel
chiedervi di associarvi a me, vi spiego di che si tratta. Personaggi
consumati sostengono che passare dalla coltivazione tradizionale
dell’Olea Europaea con 200/300 piante/ettaro a piantagioni
superintensive, a 2000 piante/ettaro, salverà la nostra olivicoltura. I
giovani vogliono invece il ritorno al passato, un sesto di impianto 5x5 o
6x6 con al massimo 300 piante/ettaro e cultivar tipiche dei territori,
insomma niente arbequine e arbosane spagnole, ma quelle toste cultivar
dei padri e dei nonni come moraiolo, coratina, bosana, frantoio e via
dicendo. I primi dicono che Spagna, California, Marocco, Australia hanno
già scelto la “superintensiva” e se non ci adegueremo, ci fagociteranno
per l’efficienza, per i costi più bassi e per il prodotto omologato e
riconoscibile da tutti. I giovani illuminati invece sostengono, carte
alla mano, che le coltivazioni superintensive si comportano come tali,
cioè producano “tanto”, solo nei primi 10 anni, poi tornano ad avere il
comportamento tradizionale con una serie di problemi in più, come
potatura, invecchiamento precoce e reimpianto, per cui i costi salgono
vertiginosamente da far rimpiangere amaramente questa scelta. Inoltre
sostengono che le cultivar italiane sono “signore sofisticate ed
abitudinarie ”che non accettano di modificare il loro portamento a vaso
policonico per diventare tanti alberelli di Natale a vaso cespugliato.
Dicono anche che i costi di produzione dell’olio in una superintensiva
nordafricana sono di € 2,5 /litro contro i € 3,0/litro di una
superintensiva italiana; ma allora che convenienza c’è a vendere
un’arbequina italiana a questo prezzo ? Dunque hanno ragione loro, ma
c’è un altro grande vantaggio nell’allevare come una volta. E’ il
sistema prediletto dalle cultivar italiane che rifiutano il sistema
intensivo. Le varietà italiane, ricercate in tutto il mondo, danno oli
con profumi e sapori non riscontrabili negli oli delle varietà allevate
con il metodo intensivo. Il loro contenuto in Polifenoli poi è spesso
anche 10 volte superiore e il valore di mercato è immenso. Lo sanno bene
i produttori italiani cosiddetti di nicchia che vendono sempre tutto
l’olio dell’annata , spesso addirittura in prenotazione. E poi diamo un
valore a questa cosiddetta “nicchia” che non è poi così piccola. Ogni
anno l’Italia colloca sul mercato nazionale ed internazionale oltre 200
mila tonnellate di questo “oro verde di nicchia” su 700 mila tonnellate
totali. E’il 28 % della produzione nazionale , altro che nicchia ! I
calcoli dei vecchi furboni sono sbagliati e nascondono il vero male
dell’ olivicoltura nostrana. In Umbria dicono che “con troppi galli a
cantare non si fa mai giorno”. Troppe chiacchiere, pochi fatti e come si vede di chiacchiere c’è chi ne vuole fare ancora. Non c’è un sistema Italia che sappia vendere l’olio e i vecchi al comando non se ne voglio procurare uno. La vendita dell’olio italiano di qualità è affidato alla genialità e alla straordinaria vitalità di produttori tutti giovanissimi, che montano in macchina e fanno migliaia di chilometri l’anno per informare e vendere l’olio, da soli. Vendono perché il loro olio è superbo, le loro piante, fotografate come star, ricevono cure amorevoli dedicate in oliveti radi e ben curati e i loro Clienti non hanno l’anello al naso. Per la frittura della mensa aziendale va bene anche l’olio da superintensiva ma per l’olio di casa … si torna al passato.
Gino Celletti